mercoledì 27 marzo 2019

Adesso che ho partorito posso dire che del parto non sapevo nulla

E’ difficile parlare di questi ultimi mesi senza cadere nel cliché del già sentito.
Non posso nemmeno negare però che mi sia cambiata la vita. Figuriamoci ammettere che effettivamente mi ritrovo in molti (moltissimi) luoghi comuni materni.
Eppure fin dall’inizio della gravidanza, all’urlo del “YOU ALL LIED BITCHES” ho sempre provato un certo “scollamento” tra quelle che erano le mie aspettative (dettate dal sentito dire) e quello che invece era il mio vissuto.
Adesso, che sentito dire e vissuto stanno combaciando, pare che abbia completato la mia metamorfosi da cinica crisalide a materna farfalla.
Ho raccontato, cercando di rimanere il più neutra possibile, il giorno o meglio i giorni del parto su Instagram ma mi ero promessa di lasciare una prova tangibile scritta (quanto si potrà considerare tangibile internet?) di quei due terribili giorni per scongiurare il rischio così popolare del “tanto poi si dimentica tutto”.
Ho cominciato questo post circa 2 mesi fa e dopo aver riflettuto ulteriormente a voce alta sulle Storie ho deciso che sì, una testimonianza scritta del parto va lasciata. Per tutte quelle che se lo dimenticano perché è stato traumatico e per tutte quelle che non hanno il coraggio di aprire il cassetto dei ricordi di quel giorno ma anche per dire a quelle che l’hanno vissuto splendidamente che non è esattamente per tutte così e non ci deve essere omertà nel riconoscerlo.
Io non voglio dimenticare nemmeno per sbaglio.
E non perché voglia rinfacciarlo a qualcuno prima o poi, nemmeno all’ostetrica presente in sala parto quel giorno (avrà sempre un posto speciale, lo so io dove), ma perché voglio davvero evitare di perdere nella memoria per qualsivoglia ragione anche solo un minuto di quei 2 interminabili giorni.
Sì, due giorni. Giunta alla fine del nono mese (cioè del decimo perché sono sempre 40 settimane) praticamente sui gomiti, con delle dolorosissime emorroidi (mai, mai, mai più metterò per scontato il mio ano, lo giuro), piena di aria come un pallone aerostatico al punto da emettere peti senza nemmeno rendermene conto, mi sono illusa che “la questione parto” fosse qualcosa da sopportare UN giorno.
Adesso che ho partorito posso dire davvero che del parto non sapevo veramente nulla.
Il corso pre-parto, come la società tutta a dire il vero, si concentra quasi esclusivamente su quello che accade dal punto di vista medico. Si parla di dilatazione, lacerazione, episiotomia, collo dell’utero, pavimento pelvico, contrazioni. Ma non si parla dei vari tipi di parto, dei metodi d’induzione, dell’ossitocina, dell’epidurale, dannata epidurale.

Ricapitolando, le acque mi si sono rotte il 16 ottobre. Fagiolino è nato il 18 ottobre.
Tutto quello nel mezzo è stato per me il parto.
Come sapranno quelle che hanno fatto il corso pre-parto, la rottura delle acque non comporta l’inizio immediato delle contrazioni. Non è nemmeno un momento doloroso: stavo dormendo e ho cominciato a sentirmi un po’ strana vicino alla coscia. Mi sono alzata e dal bagno ho avvisato Diego che “mi sa che mi si sono rotte le acque. Forse”.
Naturalmente è stato impossibile riaddormentarmi e anzi, mi sono alzata per andare a controllare sul mio personale manuale della gravidanza (Cosa aspettarsi quando si aspetta) se effettivamente era l’inizio della fine. Ricordavo che le perdite dovevano essere di un colore (rosato) ma non di un altro (scure, verdastre) ma non ricordavo quale.
La mattina mi sono fatta poi una doccia, ho aspettato un orario decente per chiamare la gine alla quale ho timidamente detto di avere delle perdite (così, stando sul generico, non volevo allarmare nessuno) e lei mi ha confermato di andare con calma in ospedale in mattinata. Alle 11 siamo andati quindi al Pronto Soccorso (l’ansia di dire al microfono dell’accettazione “mi si sono rotte le acque”) e dopo aver monitorato il battito in una delle sale parto (“ah, quindi è così una sala parto?”) ero ufficialmente ricoverata.

Quel monitoraggio in sala parto avrebbe dovuto suonarmi un po’ come un avvertimento perché c’erano un paio di donne che stavano partorendo nelle sale attigue e le loro urla mi hanno fatto compagnia mentre mi somministravano la flebo di antibiotico. Quei versi animali erano terrorizzanti anche alle vergini orecchie maschili. Erano urla di dolore disperato, suoni fortissimi e selvaggi . Io, nella mia stanzetta con i miei occhioni grandi spalancati continuavo a cercare la rassicurazione delle infermiere: “ma queste povere donne… non hanno l’epidurale forse?”
Ricoverata in camera mi confermano quindi che, non essendo partite le contrazioni, mi avrebbero “indotto” il travaglio.
Indurre il parto, che roba meravigliosa ho pensato. Quindi io posso starmene passiva che arrivi questo momento, ci pensa la medicina, la scienza, il progresso!
Indurre il travaglio ha significato quindi inserire un gel a base di ormoni in vagina per 3 volte, a distanza di 10-12 ore ogni volta. Alla seconda dose, il mercoledì mattina, sono partite le contrazioni ogni 10 minuti, fino alle 20 quando mi ammettono in sala parto con un rassicurante “da qua non esci senza il bambino”.

Le contrazioni del mercoledì quindi hanno pennellato la mia giornata come saette dolorose all’altezza del basso ventre, proprio nella piega tra il pancione e il pube.
Erano scosse elettriche e l’immagine che ne avevo nella mia testa era quella di IT con una sega circolare che cercava di tagliarmi in due. Ma se in questa fase la sessione di meditazione fatta allo Studio Bianco mi ha aiutato parecchio, per quella successiva in sala parto, non c’è stato santo in calendario che avrebbe potuto salvarmi.  Alle 8 di sera, al terzo gel, ormai la voce la stavo usando solo per chiedere ripetutamente l’epidurale.
L’anestesista quindi arriva e mentre mi infila l’ago nella schiena io ingenuamente penso “dai, è finita, da adesso è tutta discesa”.

SPOILER: NO.


via GIPHY


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