martedì 18 aprile 2017

Soulcycle: Cos'è e perché ci interessa

Chi di voi mi segue su Snapchat, sa che nell’ultima settimana sono stata a New York per lavoro e, visto che ci ero già stata 5 anni fa e gran parte delle attrazioni turistiche le avevo già eliminate dalla lista, mi sono dedicata ad attività nuove che, conoscendomi, 5 anni fa non avrei mai nemmeno azzardato a chiedere.
Se c’è una cosa che il progetto Cityrunners  (ora Adidas Runners) ha fatto alla sottoscritta è quello di cambiare completamente il mio approccio allo sport: se prima avevo qualche pudore ad approcciarmi a qualsiasi attività al di fuori della mia comfort zone, adesso mi ritrovo ad iscrivermi a corsi in una città completamente sconosciuta come New York per il gusto di “provare qualcosa di nuovo”.

Correre mi ha aiutata a mettere a fuoco i miei limiti e a superarli: quante volte ho pensato “DIECI KILOMETRI SONO UN’ENORMITA'” salvo poi finire a farli con relativa poca fatica e addirittura spingermi a farne 13 o 14 (c’è da dire che sulla mia bucket list c’era anche l’idea di completare una Mezza maratona, ma temo che rimarrà sulla mia bucket list per parecchio).
Lo sport è diventato per me quella mitica soglia “della morte nera” -come l’ho sempre definita su queste pagine- quel momento in cui Fatica 1 – Lucia 0 che per me avveniva intorno al 3° o 4° km ma che, una volta superata, mi faceva telare tranquillamente fino al decimo. Ecco, quella soglia, nella mia esperienza, l’ho sperimentata in ogni workout nuovo, in ogni attività nuova che mi sono apprestata a fare. Sarà che sono testarda ma devo dire che nonostante tutta la fatica del mondo non ho mai mollato a metà una corsa, o un circuito o una classe…anche se non sempre questo è un bene (correre con un infortunio è da cretini, non da eroi e me lo dico da sola!).

Lo sport, la corsa nella fattispecie, mi ha insegnato innanzitutto a spostare sempre più in là la soglia del dolore (sto ancora curando l’infiammazione al tibiale anteriore nata 3 anni fa, dopo le prime settimane di allenamento) ma soprattutto a spostare sempre più in là la soglia della –mia- fatica. Perché la fatica non la detta il corpo ma la mente. Il cuore e i polmoni sono dei muscoli e si possono allenare: oggi non riesco a saltare con la corda più di 30 secondi, ma se ci riprovo e ci riprovo e ci riprovo arriverò a saltare 45 secondi e poi un minuto. E lì la sfida.
Io sono una persona molto severa, con tutti ma soprattutto con me stessa e amo le sfide ma non sono per niente competitiva. Le sfide che amo sono quelle contro me stessa perché conosco l’avversario e so quali sono i punti forti e i punti deboli. Ad esempio: so che per me fare addominali non sarà mai faticoso quanto fare piegamenti, oppure quanto completare una serie di shoulder press (alzare il bilanciere sopra la testa).
Il corpo è una macchina (“perfetta” a sentire gli osteopati) e durante l’attività sportiva è come correre la formula uno: stai facendo movimenti che ti sono famigliari (quanti squat si fanno durante un trasloco?) ma pompati all’ennesima potenza e quando il trainer ti dice che lo devi fare tu lo guardi come se ti stesse chiedendo di camminare sulla luna ma poi ti metti a farlo e BAM: magari sbagli, magari non ti riesce ma t’incaponisci e dici “no cazzo, è una questione personale, ora sto qua fino a che non finisco questa serie di 10 burpees”.
Nonostante non corra più (scusa Adidas), riconosco il merito del mio cambio di mentalità alla corsa ma che ora applico tranquillamente a qualsiasi tipologia di allenamento: funzionale (crossfit), calisthenics, weight training, barre, etc. Ma la cosa più sconvolgente per me è che questo approccio mentale poi ti segue anche nella vita di tutti i giorni: anche al lavoro, anche nelle riunioni, anche nelle relazioni. Bhè certo, con le dovute differenze!
Insomma, tutte questi sport un po’ più “pesanti” che ho cominciato a fare mi hanno insegnato a lanciarmi: parto, faccio, non capisco, chiedo, mi fermo un secondo e prendere fiato ma arrivo alla fine.


Chissenefrega se si tratta di una classe di Soulcycle e non mi piace lo spinning, chissenefrega se è una classe di Barre e non appoggio le mani ad una sbarra dal 2001. Chissenefrega se è una palestra nel cuore di Soho e non ci ho mai messo piede e parlano tutti inglese e io magari non mi so spiegare. Si va, si prova, parlo maccheronica e a gesti e mi metto alla prova. Me, il mio inglese e i miei glutei.
Per altro, si dice che variare gli allenamenti (cross training) sia di gran beneficio al corpo: ai muscoli, all’apparato articolare ma soprattutto al cervello che in questo modo non ha tempo e modo di abituarsi e annoiarsi.

Dopo questa doverosa premessa, eccomi quindi a raccontarvi cos’è sto benedetto Soulcycle.
Gli americani sono gente semplice: gli dai in mano una foglia di cavolo riccio e scoprono che i vegetali fanno bene e da quel momento in poi il kale te lo ritrovi anche nel caffè della mattina. Allo stesso modo gli dai una bicicletta, della musica a palla, una stanza buia e un po’ di fantasia e VOILA’ ecco una classe di Soulcycle.
Soulcycle è un brand (e ti pareva, loro brevettano anche l’aria che respirano: Crossfit, Zumba, Barry Bootcamp etc sono tutti brand) relativo ad un workout molto simile allo spinning (quindi biciclette fisse con il modulatore di inclinazione) che ha fatto letteralmente impazzire in America. Mi è capitato di menzionare quando ero in ufficio a New York che sarei andata a provare una classe di Soulcycle e una collega è esplosa “OH MY GOD I LOVE SOULCYCLE! YOU’RE GONNA LOVE IT!!!”. L’anno scorso avevo provato a fare una lezione di spinning con un’amica perché la mia unica esperienza di bicicletta risaliva a 15 minuti di prova quando avevo 18 anni (dai quali ero uscita molle come una medusa), ma ne ero uscita convinta che non facesse per me.
Posso dire che rimango abbastanza dell’idea che non sia per me (rispetto all’anno scorso almeno nei giorni successivi non ho avuto problemi a farmi un bidet, cosa che l’anno scorso mi era sembrata impossibile per il dolore causato dal sellino) ma almeno questa volta l’esperienza è stata più divertente.
Capisco perché i newyorkesi apprezzano questo allenamento:
_Ci si chiude in una stanza buia (e senza finestre nel mio caso, ma sono quasi certa che le finestre siano un optional a NY) senza cellulari
_ Per 45 minuti si è completamente estraniati da tutto (“Là fuori potrebbe scoppiare una bomba e noi nemmeno lo sapremmo perché siamo chiusi qui dentro” – “Esatto!”)
_La musica incide al 80% sul giudizio complessivo: bad music bad workout
_ Sanno come creare una sensazione di “community” tra persone sconosciute ma che stanno condividendo la stessa fatica mortale (vabbhé, mò esagero) a forza di “WE ARE ALL IN THIS TOGETHER!!”


Come ogni community che si rispetti ha le sue regole. Anche di igiene personale.

L’allenamento di per sé si differenzia un pochino dal classico spinning perché anziché concentrarsi solo sulla velocità di pedalata (in salita, in discesa e basta), aggiunge anche dei piccoli circuiti con le braccia (facendo piegamenti in avanti verso il manubrio). La scoperte dell’acqua calda direte voi? Bhè, sì. Alla fine si ha la sensazione di avere sì i glutei in fiamme ma di aver lavorato “total body” e non solo sulle gambe.
Sotto al sellino ci sono due pesetti (i miei erano troppo leggeri) per eseguire qualche altro esercizio di braccia. Infine l’intero workout viene completato mantenendo sempre in piedi sulla bici con i glutei alti, praticamente mai appoggiati al sellino.


Non sono un’esperta di spinning quindi magari ci sono insegnanti che avevano già introdotto queste piccole varianti, ma si sa come sono gli americani no? Molto rumore per nulla. Anzi,  pensavo nei giorni seguenti di accusare qualche doloretto muscolare ma non è stato così. Peggio, molto peggio invece è stato Barre. Ma ve lo spiego in un altro post!

Sopravvissuta e felice 
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